L’informazione prodotta attraverso i media, in un Paese che voglia restare nel novero di quelli di alta “immagine e socialità” come il nostro che vive anche di arte e di turismo, dovrebbe essere opportunamente e preventivamente autorizzata quando dovesse riguardare “almeno” le notizie mirate alla protezione della salute pubblica. Chi legge potrebbe, a torto, affermare che si voglia inneggiare ad una opportuna restrizione della libertà di informazione.
Nella realtà di un’etica da Paese che ha origini culturali profonde, la libertà di espressione non dovrebbe intendersi invece inficiata dalla istituzione di una “revisione” di un testo da pubblicare quando chi scrive non ha “titolo” per veicolare una notizia in modo corrispondente alla realtà scientifica. Una sorta di “supervisione” potrebbe risultare infatti mezzo di ottimizzazione dell’informazione.
“Scrivere di tutto” non è arte e professione con cui si viene alla luce, e di fronte ad una inconfutabile realtà del genere, il più onesto degli informatori non può se non ritenere giusto un “lavaggio” preventivo della notizia in un fiume di verità scientifica. Non si affermi che chi scrive questa nota sia un individuo che predilige sistemi “non democratici”, individuabili nel controllo di “competenza”: sarebbe smentito da una antica tradizione di famiglia, che annovera tra l’altro, per la cronaca, stretta congiunzione di sangue con i “garibaldini” dell’epoca.
Né la logica di un’opportuna “verifica” offende i diritti di libera espressione oggetto di encomiabile sociale conquista, in quanto oggi non esistendo ormai più la didattica “universale,” come quella che generava i Leonardo da Vinci, è proprio il caso che chi informa attraverso i media sia a sua volta concretamente informato e formato nello specifico, altrimenti finisce per inevitabilmente trasmettere, certo senza dolo, notizie approssimate.
L’introduzione al vero contenuto di questa nota è più prolissa della nota stessa, ed il lettore non se ne abbia, certamente comprendendo che si vuole non recare danno proprio ad esso.
Si legge oggi 10 settembre 2021 su “notizie.it” che “il motivo del richiamo è legato alla presenza di sostanze inibenti”, con riferimento alle confezioni di latte in cui sarebbe stata individuata presenza di “sostanze inibenti, ossia sostanze ad azione antimicrobica o batteriostatica”.
La notizia, riferita in tal modo, non serve ad alcuno se non si trasmette con chiarezza scientifica il significato di “inibenti” e se non si rende chiara la differenza fra i termini “antimicrobico” e “batteriostatico”. La stessa notizia, riferita in tal modo, trae in confusione il consumatore perché quest’ultimo viene indotto a chiedersi il perché sia possibile riscontrare sostanze comunque estranee nel latte, giungendo a immaginare anche l’attività di possibili “untori” in senso manzoniano. Ne deriva panico, …giustificato o meno che possa essere.
Questo non autorizza i pochi eventuali maldicenti ad affermare che chi ora scrive stia sottovalutando il problema: è proprio il contrario. Chi scrive questa nota sa perfettamente quali sono le possibili cause di rinvenimento di sostanze estranee non solo nel latte e preferirebbe che lo “scrittore” informasse più dettagliatamente sull’entità del rischio o pericolo che sia (sono due cose diverse), oppure desse informazione corretta atta a sottovalutare il problema. Agli scrittori piace invece utilizzare il termine “sostanze inibenti”, mutuandolo da altro testo ove dovrebbe comparire a rigore il complemento oggetto da far seguire al verbo “inibire” ed il limite quantitativo tollerato delle sostanze inibenti (se è definito) oltre al tasso riscontrato nella derrata in questione. Questa è la notizia che sarebbe degna di identificare come “informazione”.
Il problema è che altro scrittore su altra testata parla di “latte ritirato dai supermercati, ….. marchi da evitare per la presenza di sostanze inibenti”. A chi ora scrive su questo sito viene in mente la storiellina del re nudo raccontata ai bimbi che disponevano dei vinile dei Fratelli Fabbri Editori. Il termine ”inibenti”, infatti, senza scientifica ulteriore delucidazione, fa solo scalpore e non dice nulla , non informa, fa solo “audit” innescando il panico del misterioso nel consumatore. Sembra che l’importante sia usare il più misterioso dei termini, non decodificato nel suo dimensionato significato, non accompagnato da alcuna scientifica spiegazione di sua utilizzazione, lasciando mamme e figli nella speranza di ricevere notizia ulteriore, e creando il panico in chi ha bevuto latte in genere, visto che si è scritto anche di “richiamo precauzionale” di altro prodotto lattiero caseario per altra ragione.
Si immagini cosa consegue all’informazione data attraverso il termine “richiamo” in grassetto e “precauzionale” in caratteri correnti: quest’ultimo termine, non chiosato da opportuna delucidazione, viene dal consumatore inteso come “intervento di precauzione” per pericolo accertato… insomma un’apocalisse da incauta notizia.
Al solito si perpetra, prima che l’informazione dettagliata e accertata dagli organi di Stato sia tale da richiamare situazione di concreto “pericolo”, un ulteriore danno d’immagine al settore lattiero caseario. Questo senza considerare che il discredito per insufficiente informazione non avallato da notizie che necessitano di concreta esplicazione scientifica, può esser tale da indurre panico e sconforto, senza alcuna gratifica per il lettore.
Non è ovviamente questo il luogo ove si possa disquisire “in toto” sul problema delle sostanze inquinanti: occorrerebbero ben altri spazi da dedicare e occorrerebbe dimensionare l’informazione alla non totalmente diffusa possibilità del consumatore di recepire informazioni di alto rilievo scientifico. Proviamo, invece, a rendere accessibili alcune informazioni.
Nella difficoltà oggettiva di garantire l’assenza assoluta di sostanze estranee alla natura di un alimento, la scienza ha ritenuto concretamente utile definire un data-base a livello europeo in cui sono codificati i limiti quantitativi di “tolleranza” delle sostanze che più delle altre è opportuno “tenere a bada”. Fitofarmaci (comunemente detti pesticidi), antibiotici, ormoni e micotossine sono soltanto alcuni dei possibili inquinanti delle derrate alimentari oltre agli additivi ed ai coadiuvanti tecnologici. Per il primo gruppo di sostanze si usa il termine identificativo di “inquinanti involontari” mentre per gli additivi e coadiuvanti si usa il termine identificativo di “inquinanti volontari”.
Nei data-base creati per la sicurezza alimentare compaiono i dati che costituiscono i limiti superiori di tolleranza considerati non dannosi per l’organismo, in considerazione della media quantità d’uso delle singole derrate alimentari. Quanto invece agli additivi e coadiuvanti il limite d’uso concesso nella produzione di singoli alimenti è codificato da definiti Regolamenti e pertanto si considerano al pari non regolamentari i prodotti alimentari nei quali venga riscontrata presenza di residuo superiore a definiti limiti in ragione dell’abuso di impiego tecnologicamente giustificato nel corso della produzione dell’alimento.
La problematica più complessa è quella che compete ai residui di sostanze inquinanti “involontarie”, in quanto derivanti dall’uso di fitofarmaci in agricoltura, all’uso di antibiotici in sede di allevamento del bestiame, ecc.: le quantità tollerate nell’alimento derivato, sono quantitativamente molto piccole e pertanto ciò impone l’impiego di tecnologie analitiche complesse, con tempi di applicazione non sempre brevi e con probabilità di errore non trascurabile.
Per tali ragioni, e per maggiore efficienza di intervento, l’accertamento preliminare di superamento dei limiti di tolleranza si compie spesso con test di screening, che permettono di sollevare “dubbi” sul superamento dei limiti ma che devono essere seguiti dall’applicazione di metodiche analitiche appropriate e che consentono di confermare con maggiore affidabilità i risultati ottenuti con i primi test indicativi. Ciò non sempre è noto al consumatore e pertanto questi non possono facilmente recepire il significato di “presunta presenza” di inquinanti o di “sequestro precauzionale”: quindi il richiamo precauzionale non necessariamente sottende un reale pericolo, ma sottende semmai un “rischio”, su cui indagare analiticamente in modo ineccepibile per confermare o meno l’opportunità concreta di ritiro di una merce dal mercato.
Attenzione! Non raramente, anche le aziende stesse, quando per disguidi di produzione sempre possibili dubitano sulla presenza di inquinanti in termini di “limiti”, operano e dichiarano interventi “precauzionali” di ritiro assolutamente previsti dalle norme di sicurezza.
In considerazione di quanto espresso, si può intuire quanto sia opportuno che le aziende del settore alimentare dispongano “internamente alla loro struttura” di un settore controllo qualità analitico e non solo cartaceo-nominale. Solo in tal modo il controllo di salubrità può essere svolto con la tempestività necessaria, anche in linea con test di screening, non risultando logico attendere i risultati analitici trasmessi da servizio esterno contoterzista che attua l’autocontrollo che “auto” non è…..
Più che dar notizie affrettate, l’informatore attraverso media dovrebbe attendere l’emissione di comunicati formalmente emessi dagli organi di Stato che soli possono consentire di valutare la consistenza reale di un eventuale “pericolo” alimentare. Ed inoltre, sarebbe cosa più efficiente dare informazione corretta e non così generica sulla presenza quantitativa di inquinanti (come nel caso degli “inibitori” così mal definiti). Bene è quindi attendere, prima di fare can-can, il parere di un Ministero (altrimenti cosa li abbiamo istituiti a fare?) competente. Ma questa posizione di rispetto della parola della scienza e di rigetto dell’approssimazione non è purtroppo considerata sempre utile….questo mondo sembra stia lì ad attendere “scoop” e sembra si sia stancato di ruotare sempre nel verso galileiano, ruotando spesso in senso inverso senza che molti di noi siano in grado di rendersene conto.
Sul significato del termine “inibenti” occorrerebbe dedicare molto tempo e spazio, visto che non è detto che la presenza di residui abbia documentatamente e comunque a che fare con danno diretto (inibizioni di che?) all’organismo umano, ma piuttosto con il danno tecnologico che può conseguire, a determinate concentrazioni di taluni antibiotici o di taluni fitofarmaci o anche di taluni additivi, nel corso delle operazioni di produzione delle cagliate o in altre operazioni comuni nel settore.
Perché non attendere comunicazioni scientifiche complete da parte degli enti preposti alla salvaguardia della nostra salute?