Da un letterato gioiese a nome Rocco Fasano dedito alla redazione di saggi a sfondo sociale, per Suma Ed.2008, sortì una pubblicazione che finì per diventare una “celebrazione” dell’attività casearia di Gioia del Colle. All’impegno di valorizzazione storica del testo posero impegno Vito Bianco di Antonio e di Giovanna Tateo oltre ad Antonello Bianco, figlio di questi ultimi: con ciò si rende omaggio a chi fu sensibile all’impegno di valorizzazione storica di un’attività fondamentale per la “terra” di Gioia del Colle.
Sull’attività lattiero-casearia non si esprimono frequentemente i letterati: il timore è quello di svilimento degli spunti letterari cui la caseificazione non si presta di certo a coadiuvare la descrizione di un clima di poesia sociale. L’iter produttivo del settore, nell’intorno del 1900, aveva suo riferimento principale nella gestione approssimata dei reflui da strutture a dir molto “casalinghe”, che era proprio fuori luogo chiamare già “caseifici”. Il volume del Fasano descriveva gli addetti all’iter produttivo con queste parole: “… lavoravano in continuazione durante il giorno a produrre latticini e naturalmente a gettar acqua e siero sulle strade e sui campi di periferia”. Erano i tempi in cui la gente panificava ancora in casa e continuava a mangiare più pane che companatico. La fortuna conseguente al fiorire di latterie aveva avuto una svolta con l’intelligente intervento di un medico gioiese che con due suoi nipoti si diresse verso le Alpi svizzere ed intuì l’opportunità di importare “vacche svizzere” della razza “brunoalpina”.
Si legge che “fu così che la brunoalpina scacciò la grigia “podolica” che qui da noi era di casa da sempre, ma che faceva più corna che latte”.
L’ingresso della brunoalpina nel territorio produsse incremento notevole della quantità di latte quotidianamente disponibile: ne corrispose riduzione delle spese di ricovero del bestiame in inverno ed un utilizzo ottimale dei pascoli poveri della Murgia cui le nuove bovine si adeguarono in breve: la mancanza di neve facilitò l’approvvigionamento. L’attività di trasformazione venne diretta non solo verso formaggi da stagionare ma verso latticini pronti allo smercio immediato ed al consumo quotidiano, sì che mozzarelle e scamorze divennero moda di consumo corrente. Si ebbe di conseguenza un incremento degli opifici di trasformazione (il primo fu quello di Clemente Milano) e la mozzarella si identificò con il territorio in modo indissolubile.
Il processo di produzione della mozzarella fu descritto da Diego Milano al di là dei dettagli puramente tecnici, in quanto la descrizione stessa doveva cogliere lo spirito dell’attività che diventava impresa anche se al livello familiare. L’animazione si intravedeva già dal mattino, dall’arrivo dei trasportatori di latte, quasi tutti e con qualsiasi tempo, in bicicletta: le voci si incrociavano e riferivano concitatamente su quantità di latte trasportato, lamentele e richieste dei massari su ordini e imprecazioni conseguenti. Il fragore prodotto dall’accozzarsi dei bidoni ed il rimbombo ad ogni caduta degli stessi sulle chianche al suolo, prima e dopo la pesata sulla basculla e lo scarico in caldaia.
Seguiva una calma che aveva dell’irreale, mentre si si passava a cuocere la cagliata, si bolliva l’acqua, si tagliavano i tranci di pasta e si iniziava la lavorazione. Un vapore soffice e dolce invadeva l’ambiente, si addensava sulla volta e sulle pareti, gocciolando giù per i muri fino al pavimento ove si raccoglieva in pozze trabordanti. L’unico elemento cromatico era costituito dalle doghe di faggio bagnate, l’atmosfera diveniva calda e diafana e si sfioccava come ovatta. Gli uomini sciacquettavano con le calosce sul pavimento, indossavano grembiuli bianchi di tela rigida e ruvida: d’estate calzavano zoccoli di legno alti come trampoli. Un mastelletto di faggio colmo di acqua bollente riceveva i tranci di pasta tirata e fatti rituffare con una fascia di faggio recante impugnatura ad un’estremità: si eliminava così ogni goccia di siero e i tranci venivano filati in matassa morbida e nervosa, calati in altro mastelletto da cui venivano prelevati dalle mani del “capo” che provvedevano ad annodarla in treccia oppure l’aggrovigliavano in mozzarella, fogliandola e rifogliandola nel cavo della mano. Cenni e occhiate guidavano il tutto, non parole.
Una folla straordinaria di persone acquistava direttamente la merce prodotta e da vendere, ricercando il mercato più adatto in paesi diversi, senza creare incroci fastidiosi. Si andava in bicicletta a gomme piene perché una foratura per strada poteva comportare una mancata consegna e quindi un disastro economico.
Tornando all’originale testo, “tempo per andare, consegnare e poi tornare”, pedalando si spendeva solo salute, il guadagno sembrava tutto frutto pulito. In seguito si cominciò ad usare il treno: il costo dell’abbonamento doveva essere ammortizzato dalla velocità e dalla lunghezza del viaggio, dalla distanza dalla piazza di vendita, e dalla quantità di merce trasportabile. Ma non era conveniente superare il limite del bagaglio, altrimenti addio convenienza!
Si era giunti ad una regolare distribuzione del carico: i viaggiatori venivano pregati di attribuire a se parte del bagaglio, ai fini di eventuali controlli, che non mancavano. Solo dopo l’ultima guerra, pagando un forfait per l’intero bagaglio, i mozzarellari potettero sistemarsi negli ultimi vagoni dei treni “accelerati” senza distribuire la mercanzia.
Nel testo sono descritti episodi in cui sono protagonisti i mozzarellari da una parte ed i dazieri dall’altra. Oggi non vi sono più né mozzarellari in bicicletta né dazieri riscossori d’imposta. Solo i nostalgici conservano la bicicletta che consentiva di guadagnare quel pane amaro.
“La forza, la vitalità e l’inventiva, la sofferenza dei mozzarellari hanno costituito quanto di più originale ha saputo sperimentare questo Paese nella sua storia recente, sulla via dello sviluppo economico-sociale. Di sicuro è stata la pagina più esaltante: una vera epopea popolare, la quale proprio a livello di popolo realizzava il coinvolgimento corale della tensione, lo slancio eroico dell’avventura nel folto gruppo, direttamente impegnato e concentrava l’attenzione partecipativa ed emotiva di tutti i compaesani.
Ma ciò che è stato per chi scrive importante cogliere nel volumetto di Rocco Fasano è la presa d’atto di una situazione generale di attesa senza fine, di trascuratezza per il futuro. Manca ancora, in un Sud che inventa, chi sappia coordinare e consolidare: si leggono i nomi di chi “ha fatto fortuna” al Nord e chi firma questa nota si chiede perché quella posizione conquistata da molti, debba essere chiamata “fortuna”. La fortuna di pochi realizzatasi al Nord è da considerarsi in realtà un incessante impoverimento della terra di origine ove l’imprenditoria stenta ancora a far strada proprio per colpa di un esodo sfrenato e da frenare.
Ciò che colpisce il redattore di questo brano, in definitiva, è il degrado culturale di cui si è impossessato il mondo attuale, non soltanto quello agricolo: è stato il degrado dei principi culturali che ha condotto a dover fare in modo di offrire ai figli una consistente base economica da cui partire per una più alta qualifica sociale, culturale e professionale. Si crede che questo miracolo si sia compiuto: professionisti, geometri, ragionieri, professori, impiegati pubblici, a dispetto dell’attivismo creativo offerto come esempio dai mozzarellari di Gioia. Tutti riconoscenti per il sacrificio compiuto in tempi difficilissimi dai padri, senz’altro.
Ma di tutta quell’avventura…..non se ne parla più. I mozzarellari erano spinti da ben altro stimolo, diverso da quello di un “reddito” piovuto dal cielo.